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Il macellaio

  • Immagine del redattore: Pompeo Martino
    Pompeo Martino
  • 28 apr 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 7 mag 2020


Il secondo della serie racconti che twittano. Il secondo tema scelto dal sondaggio è stato "il macellaio".


Un suono secco, poi uno schiocco dell’acciaio sul marmo, un trascinamento vibrante poi ripetere.

Anche di notte senti questa sinfonia nelle tue orecchie.

Da una lunga ed intera vita non fai altro che questo mestiere. Prendi il pezzo di carne grande dai ganci nella cella frigorifera, lo sbatti violentemente sul bancone di marmo poi dai il via al concerto. Un suono secco della lama che penetra le fibre, lo schiocco del coltello sul tavolo, ed il vibrare del bancone che prima ti fa fremere le braccia e solo dopo ti arriva alle orecchie.

Tutti i giorni.

Non ti sei mai chiesto il perché, lo hai fatto e basta.

Oggi in molti si chiedono quale sia la vocazione che li spinge a fare il mestiere che fanno, e quei molti, spesso trovano anche le risposte. Tu non ti sei mai interrogato sul tuo perché, chissà se da bambino desideravi ardentemente fare proprio il macellaio. Sai solamente che un giorno, che non eri piccolo ma nemmeno grande, correvi su e giù per le colline maremmane e ti perdevi spesso nell’osservare da lontano i butteri. La loro somiglianza con tutti i film in bianco e nero che guardavi in televisione con tuo padre ti aveva fatto sognare un lavoro in natura, o perlomeno a contatto con essa.

Non sapevi quanta correlazione ci fosse fra il sognare di essere un cowboy e quella di prendere a piene mani un trancio di carne, ma nemmeno quanta ce ne fosse fra il sogno di essere un astronauta e quella di diventare un assicuratore, o un commercialista.

Tu e la carne avete sempre avuto un rapporto intricato.

La sensazione di freddo quando la accogli fra le tue mani è qualcosa che ti scalda l’anima. Quando massaggi la polpa che trasuda dalle fibre ti senti vivo.

Suona la campanellina della macelleria.

Alzi lo sguardo e lo punti verso la porta.

Sei silenzioso, accetti l’ordine senza dire parole, pesi il frutto del tuo lavoro e a malapena indichi prezzo e peso dell’oggetto.

Quel cliente è uno di quelli assidui. Viene tutte le sante settimane a prendere qualcosa da te. Potresti quasi, di volta in volta capire cosa vuole, il taglio, il peso e anche la confezione. Un prevedibile commercialista che da bambino sognava di essere un camminatore spaziale, quasi stona con la sua camicia perfettamente bianca quando si fa spazio fra le mattonelle del tuo sanguinoso sgabuzzino di campagna.

Quando entra e ti da il buon giorno interrompe in maniera insolente il battere della lama sul marmo e si interpone brusco fra lo schiocco ed il vibrare.

Ti urta sempre con qualche frase convenevole, tu immancabilmente fingi di non riconoscerlo, anche se tutti sanno a colpo d’occhio capire che è il signorotto del palazzo. Quello che, a differenza di tutti gli altri inquilini, ha il potere economico. Quello che anche se abbondi di qualche grammo sulla richiesta non ti lascia il tempo di rimediare che ha già estratto una lauta mancia.

Quando ti allunga il denaro scorge delle unghie pulite e bianchissime che non hanno mai il coraggio di urtare le tue ricolme di sangue rappreso, blu di gelo e callose di un continuo battere, schioccare e trascinare. Le tue dita timide prendono il denaro ed appoggiano il resto in un piattino, quei due mondi così distanti non possono e non vogliono incontrarsi.

Settimana dopo settimana va così. Stesso identico rito che differisce solo di poche parole che si relazionano al tempo atmosferico o dell’orologio, oppure si fanno vari i grugniti che rivelano il tuo umore.

L’astio che muovi nei suoi confronti è sociale prima che personale. Ha qualcosa a che fare con l’aura di sfiducia che ti emana la sua giacca nera, è relativo forse alla sua auto alla moda.

È legato all’invidia di certo.

Delle dozzine di clienti che hai durante tutte le giornate, il tuo battere, schioccare e trascinare ti porta sempre a pensare a quell’impiegato. Non ne conosci il motivo, ma sin dal primo giorno in cui è apparso nella tua memoria tu non l’hai dimenticato né abbandonato per un attimo.


È tornato ancora, in una settimana per la seconda volta. Ti parla con più sveltezza oggi, è sudato e in disordine come non lo avevi mai visto. Ti annuncia che il tempo cambierà secondo le sue previsioni, ha gli occhi carichi di una certa rabbia che sai riconoscere benissimo, che conosci, che batte, schiocca e trascina. Si aggira nervosamente fra i preconfezionati della tua macelleria, forse non li aveva mai notati prima di allora, tocca con insolenza le spezie per gli arrosti, poi suona il campanellino. Tu gli metti gli occhi addosso, cerchi di fargli capire che lo stai studiando in ogni suo passo. Lui alza le mani e scopre un pezzo di camicia sotto la giacca nera. È macchiata. Ha una macchia che tu conosci bene, per deformazione professionale. È sicuramente sangue. Per tua natura taciturna lo lascia perdere e gli levi gli occhi da dosso. Lui si avvicina a te.

Non fai in tempo ad alzare di nuovo lo sguardo.

La mannaia che tronca le ossa cade a terra in un suono secco, poi schiocca il manico sulle piastrelle ed il tuo corpo si trascina vibrante verso terra.

Con una furia che non potevi immaginare, ma con una motivazione che ti si faceva ben chiara man mano che il tempo scorreva inesorabile davanti ai tuoi stanchissimi occhi, una lama ben affilata ti si pianta nello sterno.

Quel piccolo commercialista aveva pareggiato i conti.



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